Autobiografia da adulto - Cap. 11 - Idoneo alle armi

 La vacanza a Vieste, purtroppo, si concluse con un fatto spiacevole. Una sera decidemmo di recarci in un luogo situato sulle pendici di una collina sopra il paese. Nell’ultimo tratto non c’era più la strada asfaltata e, mentre percorrevamo le ultime decine di metri sulla parte sterrata, un sasso ruppe il circuito dell’olio della mia auto. Quando ripartimmo, sentimmo un rumore di ferraglia provenire dal motore e vedemmo uscire del fumo dal cofano della macchina. In pratica, non essendo più rimasto abbastanza olio nel motore, quest’ultimo si grippò. Il giorno dopo mi recai presso un'officina e, con un meccanico, andammo a recuperare l’auto per farla riparare. Siccome però il danno era grave, io e i miei amici dovemmo rassegnarci a rientrare da Vieste con i mezzi pubblici.

Non ricordo se partimmo tutti lo stesso giorno. Io, infatti, nei giorni successivi avrei dovuto recarmi a Trevi, in provincia di Perugia, per partecipare a un corso estivo della Soka Gakkai italiana. Quasi tutti i membri iscritti al corso, compresi quelli di Milano, avevano raggiunto l’hotel che ospitava l’evento con vari pullman. Io, invece, vi arrivai dopo un lungo viaggio, prima con un autobus che attraversò tutto il Gargano, e poi in treno. Giunto a destinazione, venni rimproverato da un'amica e responsabile, perché, decidendo di rimanere fino all’ultimo momento in vacanza, non avevo partecipato agli ultimi giorni di preparazione prima del corso a Milano. Questa mia scelta, inoltre, non aveva certo giovato a cambiare in positivo il karma negativo che si era concretizzato con il guasto alla macchina. Inoltre, sentii una certa fatica a entrare nello spirito giusto del corso e, durante, questo, riflettei per l’ennesima volta su certi miei comportamenti non proprio saggi che si trascinavano ancora dalla seconda metà del decennio precedente. 

Rientrato a Milano, questa volta in pullman con gli altri membri dell’organizzazione buddista, determinai di nuovo di cambiare certe mie tendenze e dedicarmi all’attività buddista ancora più serio di quanto già non lo facessi, sempre come responsabile di un settore che comunque cresceva continuamente, con quattro gruppi ai quattro punti cardinali di Milano più uno a Trento. Verso la fine di settembre tornai a Vieste in treno per ritirare l’auto riparata. Mi accompagnò mio padre. Credo che quello fu l’unico viaggio lungo che feci da solo insieme a mio padre. Dall’autostrada, guidando piano (essendo stati rialesati i cilindri, in pratica era come se l’auto fosse di nuovo in rodaggio), mi colpii molto vedere le spiagge del mare adriatico senza più ombrelloni e turisti. Il tutto dava una sensazione di tristezza e di conclusione di qualcosa che sarebbe ricominciato un anno dopo.

Per quanto riguarda il servizio militare ancora da assolvere, alla fine di luglio erano terminati i 180 giorni per i quali, in gennaio (a seguito di accertamenti sanitari da me richiesti al Distretto Militare di di Milano), ero stato giudicato “T.N.I.” (temporaneamente non idoneo).  Alla nuova visita presso l’Ospedale Militare di Milano (chiamato anche Ospedale Militare di Baggio, dal nome della zona in cui ancora si trova) venni giudicato “idoneo”. Dall’inizio delle vacanze estive, quindi, inizia a sentire che ogni mese era buono per ricevere la cartolina di “chiamata alle armi”. Non è un’espressione eccessiva, in quanto è proprio quella riportata sul fascicolo matricolare. 

In quel periodo, erano già molti i miei amici - compresi molti membri della Soka Gakkai con cui facevo attività quotidianamente e anche mio fratello - che erano già stati alla “naja” e che mi raccontavano episodi e considerazioni su questo periodo. Uno, in particolare, che era anche il mio vice come responsabile di settore, mi aveva detto una frase che mi era rimasta impressa: “Quello del militare è l’anno che passa più velocemente”. Un’opinione che contrastava con la vulgata che i giorni della naja non passano mai. Questa frase mi mise senz’altro in una disposizione più positiva rispetto a quello che mi aspettava e che, comunque, sinceramente non mi preoccupava più di tanto: anzi provavo verso di esso una certa curiosità. Un ragazzo che era stato convinto a praticare da quel mio vice responsabile durante un periodo trascorso insieme nella stessa caserma, mi aveva raccontato di essere stato per diversi mesi nella missione italiana di pace in Libano, che si svolse dal 1982 al 1984. I soldati del contingente ricevevano un’indennità di molto superiore al mio stipendio di allora. Anche se non ero proprio convinto di voler, eventualmente, andare in Libano sotto le bombe, devo dire che la prospettiva di un guadagno del genere un po’ mi attraeva. 

Spinto più che altro da mio padre, che in quanto direttore di un’agenzia della Banca Commerciale Italiana, aveva ogni giorno a che fare con moltissime persone, fra i quali un ufficiale, andai a nome di quest’ultimo a parlare con un altro ufficiale in una caserma di Milano, dove si trovava un ufficio stampa dell’Esercito. Questi mi fece molte domande sul mio lavoro, ma soprattutto su quante conoscenze avessi fra i giornalisti di molte testate importanti del Paese. Io, sinceramente, sapevo fare bene il mio lavoro di redattore, ma lo svolgevo in una casa editrice di riviste rivolte agli operatori della pubblicità (dirigenti e creativi di agenzie, oppure titolari di case di produzione audiovisiva) e degli uffici comunicazione e marketing di medie e grandi aziende. Infatti, quando finì quell’incontro, non ebbi una sensazione molto positiva, in quanto mi sembrava che più che capacità di scrittura, fossero richiesti contatti da utilizzare per far pubblicare notizie. Probabilmente quel posto era più adatto, forse, per qualche figlio di un giornalista con una certa posizione.

Dopo qualche settimana, lo stesso ufficiale cliente della banca dove lavorava mio padre, disse a quest’ultimo di aver saputo che io ero stato selezionato per un’importante entità dell’Esercito, i cui predestinati non potevano essere dirottati altrove. Non gli disse però di quale corpo si trattava. Quando raccontai questa cosa al titolare di una delle ditte di cui si serviva la mia casa editrice, invece, questi mi sgridò dicendogli che avrei potuto dire a lui che dovevo partire per il servizio militare in quanto conosceva un ufficiale del Distretto Militare (che effettivamente avevo conosciuto anch’io durante i famosi “tre giorni” di visite sanitarie e colloqui nel 1978), che avrebbe potuto aiutarmi a rimanere a Milano. Lo ringraziai, ma comunque per me non era poi tanto importante dove avrei svolto il servizio militare, quanto togliermi questo impegno e poi iniziare una nuova fase della mia vita personale e professionale.  

A metà febbraio 1984, infine, arrivò la cartolina. Nei giorni successivi, organizzai una cena con tanti amici buddisti presso un ristorante alla buona, e iniziai i preparativi per la partenza verso Foligno (Perugia) per essere “incorporato” presso il 92° Battaglione di Fanteria “Basilicata”, un C.A.R., ossia Centro Addestramento Reclute. Nel frattempo, avevo convinto l’amministratore delegato e il direttore editoriale della casa editrice, di darmi la liquidazione per i tre anni in cui avevo lavorato (anche se non ero un lavoratore assunto, ma un collaboratore interno a ritenuta d’acconto), in modo da avere una riserva economica per le mie spese personali durante il periodo della naja. Oltre a soddisfare la mia richiesta, mi fu detto che avrei ritrovato il mio posto al termine del servizio militare. Oltre all’esperienza e alla liquidazione, quei primi tre anni di lavoro mi permisero di partire per la naja con in tasca anche la tessera da giornalista pubblicista, che avevo ottenuto nei primi mesi del 1983.

Uno scorcio del mio quartiere nel 1983. Foto scattata da me soprattutto, credo, per il circo a fianco della chiesa Madonna di Fatima


Autobiografia da adulto - Cap. 10 - In attesa di chiamata

Riprendo, dopo una lunga parentesi impegnativa per questioni soprattutto di lavoro, questa autobiografia. Negli ultimi capitoli mi sono soffermato soprattutto su alcuni fatti avvenuti fra il 1981 (primo anno di lavoro, all’inizio part-time e poi full-time; difficoltà a conciliare nuovi impegni crescenti con lo studio universitario alla facoltà di Lettere Moderne dell’Università Statale di Milano; processo penale per una vecchia storia di militanza politica, conclusosi con assoluzione con formula piena; brevissima avventura con una ragazza di un paio d’anni più grande di me; attività in occasione di una visita in Italia di Daisaku Ikeda, presidente della Soka Gakkai Internazionale; vacanze estive con amici in Olanda, Inghilterra e Scozia; lungo ricovero di mia madre, etc.) e il 1982. Di quest’ultimo anno e del successivo ho solo fornito alcuni brevi accenni. Con il racconto di alcuni avvenimenti e della situazione del 1982 e 1983 vorrei concludere il resoconto di questi tre anni che hanno preceduto il servizio militare di leva (febbraio 1984 - gennaio 1985), il quale, come per la maggior parte dei giovani che lo hanno svolto, ha rappresentato uno spartiacque nella prima parte della mia vita.

Per quanto riguarda la pratica buddhista, ritengo esatto far risalire al 1982 il mio passaggio da responsabile di un gruppo di Milano a responsabile di settore. Questa nomina giunse inaspettata per me e altri miei amici, in quanto, quando arrivò la voce che avrei cambiato gruppo, si pensava che sarei diventato responsabile di un altro gruppo, non di un settore composto da cinque gruppi. Così invece fu, segno che i responsabili più elevati di allora riponevano una grande fiducia nei miei confronti. Accettai subito la proposta di questa nuova responsabilità, anche perché rappresentava uno stimolo a una nuova crescita personale che abbracciava la pratica buddista e anche altri aspetti della mia vita. 

L’ambiente del mio lavoro si ampliò, ma io mantenni la posizione che avevo, il che significò diventare la colonna (soprattutto operativa, data la mia giovanissima età) di una “macchina” che ora aveva, fra gli altri, un nuovo direttore (Antonio Pilati, che veniva a lavorare in redazione al pomeriggio, spesso accompagnato da me, visto che abitava lungo la mia strada per l’ufficio) e nuovi collaboratori esterni. A questi si aggiunsero anche alcuni collaboratori che venivano a lavorare in redazione, giovani come me, fra i quali un paio di ragazze molto simpatiche e carine. 

Benché provassi a volte attrazione per qualcuna delle mie giovani colleghe, così come per alcune praticanti buddhiste, però, una caratteristica di questo triennio fu che, dopo l’esperienza del 1981, non volli mai buttarmi veramente sul serio a iniziare una nuova relazione. Più di uno i motivi: uno sicuramente la mia insicurezza rispetto al corteggiare ragazze; un altro il fatto che, nonostante lavorassi in un ruolo che spesso mi costringeva a stare in redazione ben oltre le classiche otto ore, e che avessi una nuova impegnativa responsabilità nell’organizzazione buddhista, volevo comunque cercare di portare avanti gli studi universitari, benché da non frequentante; terzo, che agiva in modo inconscio, il fatto di dover ancora svolgere il servizio militare: un confine vago che cercavo di spostare più avanti possibile con rinvii per motivi di studio. 

Rinvii di cui, a un certo punto, non potei più usufruire. Per poterli godere occorreva sostenere almeno un esame per anno accademico. Nel 1981, nonostante tutto, riuscii a superare un esame di quelli relativamente più facili, benché al secondo tentativo. Si trattava di Geografia umana, per il quale avevo studiato soprattutto leggendo i libri (non avevo frequentato le lezioni) durante il viaggio estivo in Scozia. La prima volta venni mandato via, la seconda lo passai, seppur con un misero ventidue. Nel 1982, invece, mi accinsi a preparare un esame pesante: Storia della lingua italiana. Scelsi questo esame anche perché questo corso avevo cominciato a seguirlo in presenza all’inizio dell’anno accademico 1980-1981, prima di passare dal lavoro part-time (solo pomeriggio) a quello full-time. Il corso era tenuto da più professori. La parte monografica, dedicata alla storia della Lessicografia, era svolta dal professor Maurizio Gentile, un docente già abbastanza anziano, da me considerato molto carismatico, ma anche severo: ricordo che una mattina arrivai a lezione con dieci minuti di ritardo e non mi ammise in aula. Un’altra parte del corso era tenuta da un altro professore, di cui non ricordo il nome, più giovane ma sui quaranta-cinquant’anni, e riguardava direttamente la storia della lingua italiana, a partire dal latino, dal volgare, dai dialetti (a volte vere e proprie lingue) fino ad arrivare all’italiano oggi comunemente usato in tutto il Paese. In queste lezioni si parlava anche di linguistica, che poi sarebbe diventato uno dei temi che continuo ancora oggi a studiare per conto mio e che, ad ogni modo, mi sono serviti anche per crescere come giornalista. 

Il primo anno, comunque, avevo soprasseduto dal tentare questo esame particolarmente impegnativo. Nell’anno accademico 1981-1982 scelsi di concentrarmi - con tutte le difficoltà dovute alla non frequenza, al numero di libri da studiare, al cambiamento annuale del programma del corso, e ai numerosi impegni di lavoro, di attività buddhista e sociale (ci tenevo a uscire anche con gli amici non buddhisti) - su questo esame. Purtroppo non andò bene. Il 17 dicembre 1982, un venerdì (magari i superstiziosi avranno qualcosa da ridire sul venerdì 17 che avevo scelto), mi presentai davanti agli esaminatori e ad iniziare a interrogarmi fu proprio il professor Gentile. Già alla prima domanda si accorse che non ero preparato bene. Gli chiesi di provare a pormi un’altra domanda e fallì nel rispondere anche a quella. Quindi mi disse che dovevo ritornare un’altra volta e io gli rivelai: “Così non potrò più chiedere il rinvio del servizio militare…”. Allora lui si alzò in piedi con il volto severo e disse con ironia: “Che cosa dobbiamo fare, metterci sull’attenti?”. Accusai il colpo e lo guardai con un po' di vergogna per il tentativo goffo di fare compassione e passare l’esame, magari con un voto bassissimo. Al che fui rincuorato vedendo il professor Gentile cambiare espressione, assumerne una tranquilla e dirmi: “Vai, caro”. Quel “caro” non me lo dimenticherò mai, rappresenta per me una prova di come si possa essere allo stesso tempo severi ma molto umani. Per la cronaca, qualche anno più tardi il professor Gentile divenne rettore dell’Università degli Studi di Milano. Quando lo seppi provai orgoglio per aver conosciuto una persona così importante. Quando, ancora qualche anno più tardi, lessi sui giornali che era morto, mi dispiacque.

Dopo quella bocciatura, mi rassegnai all’idea che avrei potuto ricevere presto la “cartolina” di richiamo al servizio militare, la “naja”, prima di laurearmi. E così avrei anche interrotto l’attuale esperienza lavorativa. Prima, però, pensai di giocare un’altra carta. Da qualche anno mi sottoponevo periodicamente ad esami del sangue per tenere sotto controllo i valori del fegato, e non erano perfetti. Quindi chiesi una visita all’Ospedale Militare di Baggio (si chiamava così quello di Milano) e lì mi sottoposero a un prelievo del sangue. Ricordo che, subito dopo il prelievo, mi si offuscò la vista e mi sentii svenire. Mi fecero sdraiare su un lettino e dopo dieci minuti passò tutto. Ringraziai il dottore e l’infermiere, entrambi militari, perché erano stati premurosissimi. I risultati confermarono che i valori erano, benché di poco, fuori dalla norma. Fui dichiarato “T.N.I. 180 gg”, brutto acronimo che significava “temporaneamente non idonei per sei mesi”. 

Per tornare alla mia situazione degli anni 1982 e 1983, che cose ricordo con particolare affetto? Nel 1982, dopo il primo anno da giornalista, che continuavo a ripetermi (e a dire anche ad altre persone) era un lavoro che mi era arrivato “non cercato” e che non intendevo continuare dopo la laurea, avevo iniziato a prendere gusto per questa professione. La rivista in cui lavoravo, “Pubblicità Domani”, si rivolgeva agli operatori della pubblicità (in agenzie, aziende, editori), che scoprii essere un mondo pieno di persone interessanti e che richiedeva l’integrazione di attività molto diversificate e tutte ricche di temi che mi incuriosivano e affascinavano: dal marketing alle strategie di comunicazione, dalla creatività alla produzione di spot, alla pianificazione dei media. Inoltre, la maggior parte di queste persone con cui entravo in contatto - soprattutto manager di grandi agenzie o fondatori di strutture più piccole, direttori creativi, direttori media, responsabili pubblicità di importanti aziende italiane e multinazionali - esprimeva simpatia, stima e spesso volontà di mentorship nei miei confronti, come giovane giornalista volonteroso, perspicace ed empatico.

Nel 1982, due eventi importanti, diversi fra loro, catturarono la mia attenzione e mi portarono ad “abbeverarmi” quotidianamente al lavoro giornalistico svolto da colleghi molto più esperti di me su testate nazionali e in televisione: il crack del Banco Ambrosiano (con la morte del banchiere Roberto Calvi, trovato impiccato sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra) e i Mondiali di Calcio in Spagna, vinti dall’Italia nella finale contro la Germania. 

Del 1982 e del 1983 ricordo sempre, come occasioni di esperienze molto intense (soprattutto belle, ma anche qualcuna non piacevole), le vacanze con amici del quartiere rispettivamente in Spagna e a Vieste, in Puglia. Della prima ricordo soprattutto il calore - oltre quello meteo - con il quale gli spagnoli ci salutavano, quando ci vedevano, dicendoci: “Italiani, campeones do mundo”. E poi la bellezza dei panorami delle colline dell’Andalusia, della città di Malaga, dove eravamo campeggiati, e delle uscite serati a Torremolinos. Ovviamente ci fermeranno anche a Barcellona, dove ero stato da solo nel 1978. 

Di Vieste, cittadina di origine del padre di due dei miei amici con cui ero in vacanza, ricordo la simpatia dei ragazzi e delle ragazze che ho conosciuto, il fascino dei vicoli dove la sera andavamo a comperare il moscato fatto in casa da una signora, le gradinate dove poi andavamo a sederci la sera (dove ci veniva spesso a salutare una bambina piccola del posto, vestita un po’ poveramente, che non parlava italiano ma solo dialetto) e un grande trabucco. Quasi sempre questo era la meta dell'ultima parte della serata. Da lì mi piaceva osservare il mare, che si estendeva davanti a noi nella notte, con increspature argentate dalla luce della luna che potevano essere causate da piccole onde o da pesci che saltavano fuori dall’acqua per tornarci subito. E cercavo di immaginarmi le terre lontane, invisibili dietro l’orizzonte. 

Io in Spagna nell'estate 1982


Autobiografia da adulto - Cap. 9 - Responsabilità

 Come forse ho già scritto, molti fatti avvenuti nella mia vita fra il 1981 e il 1983 ( e inizi 1984), non sono più facilmente databili, nella mia memoria, a un anno preciso di questo triennio. Continuerò, quindi, a raccontarli senza pretendere esattezza cronologica. Già ho parlato della visita in Italia del presidente della Soka Gakkai Internazionale, Daisaku Ikeda, che mi ha visto coinvolto h24 per qualche giorno (ed è stata una bella, profonda, indimenticabile esperienza), del secondo rapporto sessuale della mia vita e di altre prime esperienze erotiche con l’altro sesso, del viaggio in Scozia, e del processo che ho subito (per fatti del 1978) e dal quale sono uscito assolto “con formula piena” per non aver commesso il fatto (o almeno non ricordarlo con esattezza).

Dal punto di vista della pratica buddhista, in questo periodo di tempo che precede la partenza, nel febbraio 1984, per il servizio militare, oltre alla già citata visita del presidente Ikeda, ricordo come fatti più rilevanti il successo nella conversione - almeno per un certo periodo di tempo - di alcuni giovani e l’assunzione prima della responsabilità di un gruppo e, quindi, di quella di settore. 

La seconda, seguita a circa poco più di un anno dalla prima (tra il 1982 e il 1983), mi portò, dopo pochi mesi, a prendere drastiche decisioni circa il mio modo di trascorrere il tempo libero, di sera e nei fine settimana, abbandonando alcuni passatempi derivati dal passato e la frequenza di alcuni amici del quartiere - per la correttezza molto “in gamba” - con cui avevo ripreso ad uscire dopo qualche anno (erano quelli con cui avevo stretto rapporti per un certo periodo nel 1978). Questa mia decisione improvvisa e perentoria, durò in realtà per alcuni mesi: un giorno rividi uno di questi amici, che mi chiese il motivo per cui avevo da un giorno all’altro rotto i rapporti, e dopo che glielo spiegai, mi rimproverò dicendo che avrei potuto risolvere i problemi anche continuando a vederci e che mi ero comportato male. Dovetti ammetterlo e credo che mi scusai. 

Da allora ripresi a frequentarli pur continuando a impegnarmi il più possibile nella mia responsabilità all’interno dell’organizzazione buddhista. Che condividevo con un viceresponsabile - che però non era sempre disponibile come me - e una responsabile giovane donna, con la quale mi sentivo tutti i giorni e con la quale riuscimmo a creare un settore molto grande, con gruppi sparsi su Milano (e uno a Bolzano), e che totalizzava oltre il centinaio di presenze alle riunioni di discussione, le quali allora si tenevano a cadenza quindicinale.

Nel frattempo, anche a livello lavorativo, mi ritrovai a dover raddoppiare la mia responsabilità e il mio impegno. Come ho già scritto, quando iniziai a lavorare nella redazione del mensile Pubblicità Domani (edito da New International Media) nel settembre 1980, mi trasferii dal corso di laurea in fisica (dove non avevo ancora sostenuto alcuno degli esami del primo anno) a quello di lettere moderne, sempre all’Università degli Studi di Milano. Il primo anno riuscii a frequentare tutte le mattine, poiché il mio accordo con l’editore (che come forse ho già detto, apparteneva - come la sua compagna - alla cerchia degli amici e conoscenti di mio zio Miro Cusumano, fratello di mia madre e pittore astratto), prevedeva che io lavorassi tutti i giorni dalle 14.30 alle 18.30. Ciononostante, però, sia perché il lavoro mi assorbiva molto mentalmente sia perché l’attività buddhista era molto intensa (e su base pressoché  giornaliera), in quel primo anno non riuscii a dare che un solo esame, peraltro con un voto basso (20 in geografia umana). 

Un pomeriggio, appena arrivai in redazione (in via Revere 16), mi dissero che durante la mattinata era arrivata la polizia, che aveva perquisito tutti i locali. La ragione era che la persona che era stata incaricato a tempo pieno per coordinare l’attività redazione (e di cui io ero il subordinato diretto nel pomeriggio) si era trovata coinvolta in un’indagine legata al mondo delle Brigate Rosse, anche se lui non era un terrorista, ma probabilmente conosceva da anni qualcuno che apparteneva nelle BR per averlo frequentato in anni ancora più lontani come semplice militante di sinistra. L’editore, per evitare problemi futuri, aveva ritenuto di dire al collega di non venire più. Nel frattempo aveva deciso di chiedere a me se me la sentivo, dal giorno dopo, di svolgere io anche i compiti di quella persona. Io accettai. Questo, però, segnò la fine della frequenza alle lezioni in università e l’inizio della mia attività lavorativa a tempo pieno anche negli anni a venire.

Un altro evento importante di quel periodo è stata una malattia di mia madre. Da qualche tempo aveva iniziato ad avere frequenti episodi di diarrea. Giorno dopo giorno avevo notato che il suo volto diventava più emaciato e che perdeva forze. A un certo punto presi la decisione di costringerla a farsi visitare da un buon medico gastroenterologo, che individuai io stesso. Quindi la portai da lui nel suo studio, in zona Porta Vigentina, e questi le consigliò di farsi ricoverare al più presto. Il ricovero avvenne, forse, il giorno dopo stesso. 

All’ospedale San Paolo, i medici si diedero molto da fare per cercare di dare un nome alla patologia. Nei primi giorni si parlò di sprue, ma poi questa diagnosi venne esclusa. Invece di qualche giorno, il ricoverò si prolungò per settimane. Io andavo a trovarla tutti i giorni. La vita in famiglia era cambiata. La maggiore delle mie sorelle si era presa in carico dei compiti di nostra madre, e notai che mi stirava i vestiti. Nostro padre non riusciva a capacitarsi di quanto stava avvenendo. Per fortuna eravamo una famiglia numerosa. Un giorno, la mamma entrò in una specie di stato comatoso e non fu esclusa la possibilità di morte. Io avvisai i miei amici buddisti. Rimasi, con altri parenti al capezzale di mia madre, che dopo qualche ora, si risvegliò. Il volto mi appariva più disteso di prima. Disse che aveva sognato che stava cacciando via qualcosa. Allora richiamai una mia amica e responsabile buddista e le raccontai l’avvenuto. Lei mi disse che, nelle ore più critiche e prima che mia madre si risvegliasse, molti praticanti avevano pregato per me e mia mamma. Il ricovero proseguì poi per ancora qualche tempo. Quando la ripresa fu più consolidata, mia madre venne dimessa con una probabile diagnosi di morbo celiaco. Da allora cominciò a seguire la dieta per celiachia, facendosi procurare gli alimenti a base di farina in farmacia.

Autobiografia da adulto - Cap. 8 - Effetti giudiziari

 Insomma, il triennio dal 1981 al 1983, è stato un periodo di costruzione e ridiscussione continua del mio essere. Al 1981 ho già dedicato due capitolo: uno in cui mi sono soffermato soprattutto sul progresso della mia pratica buddista all'interno della Soka Gakkai, alla visita in Italia del presidente Ikeda, al viaggio estivo in Olanda Inghilterra e Scozia, e l'altro sull'evoluzione del mio rapporto con la sessualità. Concludo una prima (magari ci ritornerò in futuro) rievocazione di quell'anno, corrispondente al mio raggiungimento del ventunesimo anno di vita (a 21 anni una volta si diventava maggiorenni, sono tre settenni eccetera). Nei prossimi capitoli tornerò su fatti che probabilmente potrebbero risalire sempre al 1981, oppure essere avvenuti nel successivo (1982) e in quello ancora seguente (1983). Ritengo che fra questi anni via siano molte continuità, mentre la vera cesura avverrà nel 1984 con il servizio militare.

Più o meno a metà nella seconda metà del 1981, dopo la visita del presidente Ikeda (ma non sono sicuro se prima o dopo l'estate), succede che a casa mia arriva una lettera di un avvocato. La riceve mia madre, che essendo casalinga, era a casa quando arrivò. L'avvocato scriveva di essere stato nominato mio difensore di ufficio in un processo che mi vedeva imputato, insieme ad altre undici persone, per fatti avvenuti all'interno del liceo scientifico Einstein di Milano nel 1978. Le accuse erano tre: interruzione di pubblico ufficio, occupazione abusiva e porto d'armi improprie. Risulterà - secondo quanto mi fu detto da non ricordo più chi - stralciata (e poi probabilmente archiviata) quella di porto d'armi da guerra. Sembrò evidente che per queste ultime si intendevano non mitra o cannoni, ma bottiglie Molotov. Nel 1978 io avrei compiuto questi reati insieme ad altre persone non più da studente dell'Einstein (che avevo lasciato alla fine del 1976, per trasferirmi al Sesto Liceo Scientifico Donatelli di viale Campania), ma da esterno.

Almeno una delle altre persone coinvolte era un ex studente dell'istituto tecnico commerciale (allora ragioneria) Verri di Milano, situato nello stesso isolato e costruito insieme all'Einstein. Gli altri erano militanti (o ex) del Comitato Antifascista (CAF) Vittoria; organizzazione che negli anni Settanta - quando l'avevo conosciuta io - aveva sede in via Arconati, ma che, nell'anno di cui sto parlando, si trovava in via Cadore.

Un po' giorni dopo l'arrivo della lettera, fui chiamato da uno dei capi del CAF per incontrarmi con lui alla sede di via Cadore. Io mi ricordavo bene di questa persona, di forse cinque anni (o qualcosa di più) più grande di me, e ne avevo una grande stima. Lui mi disse che insieme ad altri imputati avevano deciso di non utilizzare l'avvocato d'ufficio proposto dal Tribunale ma di rivolgersi a un altro (mi sembra un avvocatessa) che aveva già esperienza nella difesa di militanti di sinistra. Io gli dissi che la mia famiglia aveva deciso di rivolgersi ad un altro avvocato di fiducia, che aveva trovato mio padre e che mi sembra fosse vicino al movimento di Comunione e Liberazione (questo non lo dissi al mio interlocutore, viste le posizioni distanti fra il suo, e anche mio ex, movimento e CL). 

Il compagno cercò di convincermi a seguire la strada scelta da lui e dagli altri, che avrebbe anche garantito una coerenza di linea difensiva, ma io dovetti dirgli che preferivo rispettare la scelta della mia famiglia. Che, peraltro, mi sembrava poter portare a migliori risultati processuali. Mi sembra che il costo del mio avvocato fosse (pagava mio padre, perché ancora non guadagnavo molto) di 400 mila lire, mentre quello dell'avvocato scelto dagli altri undici coimputati sarebbe stato - diviso fra tutti - inferiore. Andando via dell'incontro non potei non sentirmi un po' in colpa per due motivi: il primo era che non ero stato solidale con gli altri; il secondo era che mi sembrava di beneficiare, borghesemente, di una situazione economica favorevole. Fu una delle prime volte che credo di aver preso delle decisioni che mi avrebbero, probabilmente, alienato delle amicizie e fatto apparire egoista.

Tornando ai fatti contestati dall'accusa, io ero sicuro di aver partecipato, negli anni successivi al mio allontanamento dall'Einstein (fu infatti così: io non volevo andarmene, ma fu consigliato caldamente ai miei di trasferirmi in un altro liceo per non avere grane... e come si vede non bastò), a una incursione nel liceo come quella oggetto del processo, ma non ero sicuro che si trattasse proprio di quella, a seguito della quale, ero stato denunciato. E se la denuncia fosse stata presentata in conseguenza di un altro fatto simile, ma in cui io non ero coinvolto, ma chi mi aveva denunciato, sbagliando, pensava di avermi visto? 

Siccome in quel periodo io ancora andavo a lavorare in redazione la mattina, perché ancora frequentavo lezioni del primo anno di Lettere all'Università Statale, decisi, uno o due volte, di andare alla biblioteca comunale di via Sormani a cercare, su quotidiani dell'epoca dei fatti contestati, informazioni su questi ultimi. Non ne trovai e, nel frattempo, confermai a me stesso che sicuramente ero stato protagonista di un evento della stessa natura di quello che aveva dato origine al processo, ma che, visto che non mi ricordavo esattamente di aver partecipato a quest'ultimo, non mi sarei di certo autoaccusato (né avrei rivelato che avevo compiuto gli stessi reati forse in un'altra occasione).

Nei giorni successivi, con l'avvicinarsi della prima udienza (in totale furono tre), parlai con altre persone di quanto stava avvenendo. Il primo fu ovviamente l'avvocato di fiducia incaricato dai miei, il quale mi suggerì di dire: "Sì, quella mattina ero fuori dall'Einstein, ma perché avevo appuntamento con una mia amica con cui volevo mettermi insieme (o ero già insieme, ndr). Però non sono entrato nella scuola". In pratica ammettevo la mia presenza presso il mio vecchio liceo la mattina dei fatti, ma negavo il coinvolgimento nell'incursione e avrei così fatto supporre che mi i miei accusatori, vedendomi fuori dall'edificio, avessero pensato che poi vi fossi anche entrato". Io non ero molto convinto di questa linea difensiva; temevo che, alla fine, la memoria di aver compiuto effettivamente gli stessi reati che mi venivano contestati forse in un altra occasione (ma in realtà anch'io ero propenso a pensare che fosse quella volta), mi avrebbe tradito, unendosi a un senso di colpa per quanto avevo comunque compiuto. Però dissi al mio legale che avrei seguito tale linea.

Sempre in quei giorni, siccome avrei dovuto assentarmi dal lavoro, dissi alla persona che il mio editore e il mio direttore avevano incaricato, a tempo pieno, di coordinare la rivista con il mio aiuto part time, il motivo per cui avrei avuto bisogno di qualche permesso di assenza. Lui si dimostrò molto comprensivo, anzi solidale (per non dire complice, con affettuosità), e mi disse: "Non preoccuparti, ti copro io le spalle". La persona che mi aveva introdotto al buddhismo (si dice " fare shakubuku"), invece, mi disse: "Cerca le persone che ti hanno denunciato o che testimonieranno contro di te. Dì loro che sei dispiaciuto di quanto è successo, che sei cambiato. E vedrai che, recitando (la nostra forma di preghiera, ndr.) per superare questa difficoltà, andrà tutto bene". Io però decisi sì di recitare per affrontare neglio questa difficoltà che si presentava nella mia vità, come retribuzione karmica, a qualche anno di distanza, ma non di cercare i miei accusatori e scusarmi con loro.

Ebbene, al termine della terza e ultima udienza, in cui come in quelle precedenti erano venuti ad assistere i miei genitori e le sue sorelle (non so dire se solo per interesse famigliare o anche per dare l'impressione che eravamo una famiglia per bene), fui interrogato dal pretore (non erano reati per i quali fosse necessaria la presenza di tre giudici; bastava uno solo monocratico). Lui mi chiese subito: "Lei quella mattina è entrato nella scuola e ha compiuto i fatti di cui si sta parlando". Io restai pochi secondi zitto, pensando, e poi risposi: "Non ricordo". intanto guardai il mio avvocato e vidi che scuoteva la testa in segno di disappunto, perché non stavo seguendo la linea di difesa concordata. Allora il pretore tornò alla carica: "Non può dire non ricordo. Deve ammettere o negare". Quindi io: "Allora nego". L'interrogatorio finì così.

La mia nuova linea si rivelò vincente. Infatti, poco dopo il pretore chiamò a testimoniare, a mio carico,  un ex studente di un anno o due più di me, che negli anni in cui andavo all'Einstein era il leader degli studenti che si opponevano all'attività dei militanti di sinistra consistente nel deviare l'attività scolastica da quella che, secondo loro, le gerarchie scolastiche, e la maggior parte dei genitori, dovesse essere: studiare e basta: niente scioperi, picchetti, autogestioni o cose del genere. Con lui infatti, avevo avuto solo cattivi rapporti. Ero sicuro anche che fosse stato lui l'autore del testo di un volantino che, quando ero in prima o seconda, era stato distribuito a firma Studenti Indipendenti, per contestare comportamenti degli studenti di sinistra contrari, secondo loro, al diritto degli altri di partecipare alle normali attività didattiche. In quel volantino c'era una frase in cui, in minuscolo, era utilizzata la parola "cervelli" che, era evidente a tutti, suggeriva me ("cervelli che pensano male e agiscono peggio".

Il mio ex compagno di scuola, interrogato dal giudice, quando gli fu fatto il mio nome, disse: "Cervelli non c'era. Lo conoscevo e mi ricorderei di averlo visto". Quindi il pretore gli chiese: "Quindi non c'era?". Come mia somma sorpresa il testimone rispose: "No, per me non c'era". Quando venne la volta del mio ex preside, Enrico Giorgiacodis", anche a lui il magistrato fece la stessa domanda rivolta all'ex compagno di scuola. Il preside rispose: "Cervelli era un mio alunno. Me lo ricordo bene. Se ci fosse stato quella mattina me lo ricorderei". Quando il pretore gli fece notare che sotto la denuncia c'era la sua firma, il professore Giorgiacodis disse: "Ma tanta acqua è passata sotto i ponti da allora". Al che, se non ricordo male, il giudice lo liquidò con un rimprovero per aver sottoscritto una denuncia che poteva comunque ledere una persona. 

Non infierì però così forte come, invece, fece nei confronti dell'ex presidente dell'associazione dei genitori Libera, che era apertamente contraria a ogni forma di attività politica all'interno della scuola, rappresentava soprattutto genitori con tendenze di destra. Il suo presidente, A.M., era diventato un'istituzione all'Einstein. Da parte di noi studenti di sinistra si pensava che fosse dominante anche nei confronti dello stesso preside. Di certo lo sosteneva, se non addirittura sobillava. E mentre Giorgiacodis, in quelle poche occasioni in cui avevo potuto parlare direttamente con lui in presidenza, mostrava una certa stima nei miei confronti (cosa di cui non mi dimenticherò mai), e una volta mi disse addirittura che io avrei apprezzato la lettura degli Annali di Tacito, A.M. ostentava decisamente antipatia nei miei confronti. Sentimento ricambiato. 

Tornando al processo, il giudice gli chiese perché aveva chiesto al preside di presentare la denuncia sui fatti di quel giorno, e si soffermò sul mio nome. A.M. , se non ricordo male, prima mi accusò e poi cadde in contraddizione. E forse anche lui tentò di ridimensionare la gravità dei fatti. Ricordo precisamente che il pretore lo rimproverò molto e che lui aveva una faccia umiliata e, come si suol dire, dovette ritornare al suo posto con la coda fra le gambe. Alla fine, su dodici imputati, io, l'unico ex studente del liceo teatro dei fatti, fui l'unico a essere assolto con formula piena, un altro paio o tre furono assolti per insufficienza di prove, e gli altri furono condannati con pene di alcuni mesi con beneficio di sospensione condizionale.

Io nel 1978
Io nel 1978


Autobiografia da adulto - Cap. 7 - Questioni di sessualità

 Del 1981 ho già avuto modo di raccontare vari eventi importanti, quali l'inizio di nuove amicizie con ragazzi conosciuti per caso ai Navigli e che ho introdotto al Buddhismo di Nichiren Daishonin, la visita a Firenze e Milano del presidente della Soka Gakkai Internazionale (SGI) Daisaku Ikeda e le vacanze estive in Olanda e in Gran Bretagna (Inghilterra e Scozia) con i ragazzi di cui sopra.

Del 1981 mi ricordo con piacere della seconda volta in cui ho avuto, in vita mia, un'avventura sessuale completa con una ragazza. Come ho già raccontato, la prima in assoluto l'avevo vissuta nella primavera o estate del 1979, ma era stata un'esperienza "sui generis", in quanto ero stato portato da alcuni amici (i quali sapevano che ero ancora vergine) a casa di una loro amica disponibile e io ero in uno stato di non piena lucidità. Quindi, benché, dopo molti tentativi, siamo riusciti ad avere un rapporto completo, le sensazioni - benché piacevoli - non erano state quelle che avrei potuto attendermi. 

Dopo la mia conversione al Buddhismo, alla fine del 1979 e il cambiamento di frequentazioni, mi ero trovato in altre situazioni in cui era coinvolto il lato sessuale della vita. Una donna amica di miei amici, di qualche anno più grande di me, aveva provato più volte a invitarmi a casa sua, anche per fare sesso, ma non avevo accettato per un paio di motivi principali: non mi piaceva e non mi sentivo pronto per avere una relazione di coppia, che temevo anche potesse limitarmi nella mia libertà. Nell'estate successiva, durante un breve viaggio a Firenze con un mio amico, la ragazza con cui si era messo da poco ed alcune amiche di questa, ho finito una sera per trovarmi sul letto di una di loro semplicemente per chiacchierare (e forse giocare a carte). 

Provando una certa attrazione per lei (che aveva quattro anni meno di me) ho iniziato a divenire abbastanza ardito, trovando anche da parte sua una crescente complicità. Dopo un po' ci siamo spogliati, ma purtroppo lei aveva le mestruazioni, quindi abbiamo fatto molto petting ma non abbiamo avuto un rapporto completo. Poi ci siamo addormentati. La mattina mi sono svegliato con lei che aveva dormito con la sua testa sul mio petto. Questa scena mi ha fatto provare una sensazione bellissima e la ricordo ancora con molta tenerezza. La sera dopo io mi sentivo stanco e non eccitato. Mi sono sdraiato su un divano nella sala dell'appartamento in cui ci trovavamo (vicino agli Uffizi). Poco dopo lei è venuta da me e mi ha detto che, se volevo, mi poteva offrire "asilo politico" nel suo letto. Io però ho declinato. Negli anni successivi mi sono pentito di questa scelta.

Una dimostrazione eclatante della mia goffaggine con le donne è stata anche questa, in cui non è coinvolto il lato sessuale. Durante una serata in compagnia di mio zio Miro a casa di suoi amici artisti nel quartiere Brera di Milano, avevo incontrato una ragazza della mia età. Subito ci eravamo fatti notare reciprocamente questa circostanza, perché eravamo gli unici giovanissimi, mentre gli altri presenti nella casa erano tutti dell'età dei nostri genitori. Siamo stati per un po' da soli in una stanza. Io avevo trovato una chitarra e suonavo, mentre lei mi ascoltava. Non ricordo che avessimo parlato molto. Comunque la trovavo molto carina. 

Qualche settimana o mese dopo, quando ancora frequentavo l'università la mattina e il pomeriggio andavo a lavorare in redazione, sono andato a mangiare nella mensa dell'ateneo. C'era un tavolo vuoto e mi sono messo lì con il vassoio preso al self-service. Dopo qualche minuto si è seduta di fronte a me una ragazza con il suo vassoio. Io l'ho riconosciuta: era quella della serata in Brera. Non so se lei mi abbia riconosciuto a sua volta. Io non ebbi il coraggio di chiederle se si ricordava di me, di noi, e lei nemmeno iniziò a parlarmi. Passammo una - almeno per me - imbarazzante mezz'ora a mangiare senza scambiarci una parola. Poi ci lasciammo senza, mi sa, neanche salutarci. Anche di questa esperienza ho portato il rimorso per sempre.

Ma torniamo alla "seconda volta". In questo caso, era quasi sicuramente il 1981 o al massimo gli inizi del 1982, un sabato sera ci siamo trovati a casa di un nostro amico praticante io e altri amici buddhisti (fra i quali uno di quelli con cui ero andato in Scozia). C'era una ragazza di un due o tre anni più grande di me che avevo conosciuto alcuni giorni o settimane prima. Era carina ed estroversa. Aveva simpatia per me. A un certo punto della serata, eravamo seduti per terra in sala. Io e lei ci trovavamo uno di fronte all'altra. Vedevo le sue mutandine e questo di fece eccitare e diventare sempre più intraprendente, al punto che - non ricordo con esattezza chi lo propose per primo - andammo in una camera da letto. In quella stanza c'era due letti singoli. Su uno eravamo sdraiati io e lei e su un altro il mio ex compagno di viaggio in Scozia con la proprietaria di casa. La presenza di loro non ci dette alcun fastidio e viceversa. Anzi, ci incoraggiavamo in un certo senso. La mia amica era più esperta di me e quindi guidò le danze. Fu un'esperienza molto piacevole e ricca, e senza i problemi della prima volta nel 1979. Ho sempre considerato, di fatto, questa come la vera prima avventura sessuale normale della mia vita. 

Poi lei mi accompagnò a casa in auto. Prima di lasciarmi fece un gesto che significava che ci saremmo sentiti per telefono. Quel segno, però, visto attraverso il vetro del portone, mi fece sentire come se fossi in trappola. Tuttavia, uscimmo insieme un'altra serata, senza fare nulla. Quella volta lei volle che io la accompagnassi a casa guidando la sua macchina e poi mi pagò (ancora guadagnavo pochissimo al lavoro) un taxi per tornare a casa. Ricordo che il tassista comprese la situazione e, durante il viaggio fino a destinazione, chiacchierammo sulle relazioni fra uomo e donna. Nei giorni successivi, però, crebbe il mio timore di essermi infilato in una storia di cui non ero convinto e pian piano smisi di sentirmi con quella ragazza. La rividi ancora, insieme ad altri amici, e ciò fu motivo di imbarazzo. Venni anche un po' rimproverato dall'amica che ci aveva fatto conoscere per averla fatta soffrire.

Continuai fino ad almeno dopo il servizio militare (1984-1985) ad vivere situazioni inconcludenti con l'altro sesso. I fattori erano un mix di timidezza, autocontrollo nel non voler sfruttare il carisma che mi derivava dalla mia responsabilità nell'ambiente buddhista per attrarre a me delle ragazze giovani e carine che mi piacevano, timore di legarmi con donne più grandi di me (ce n'erano anche nel lavoro) che mi sembrava cercassero di avere delle avventure con il sottoscritto, e, last but not least altre due circostanza: la prima era che cercavo, dopo il lavoro e l'attività religiosa, di studiare per dare qualche esame all'università; la seconda, forse, era che dovevo ancora svolgere il servizio militare. Questo credo che costituisse uno spartiacque psicologico fra il momento attuale e quello che sarebbe stato il mio futuro negli anni successivi a una desiderata laurea e all'assolvimento degli obblighi di leva militare. Non può non avere avuto un ruolo anche una certa inibizione verso il tema delle conquiste sessuali già emerso durante le preadolescenza e l'adoloscenza, anche a causa di un'educazione un po' conservatrice sulla sessualità.

Da un punto di vista lavorativo, benché mi piacesse abbastanza l'attività giornalistica che svolgevo (anche per gli stimoli che permetteva di avere, occupandomi della vita del mondo pubblicitario, come redattore in una rivista specializzata su questo tema), non pensavo che avrei voluto fare il giornalista tutta la vita. Credevo che, forse, la laurea in lettere mi avrebbe aperto altre strade, come quella di diventare uno sceneggiatore, lavori che in quel momento mi attraevano. O al limite anche un copywriter pubblicitario. 

In questa situazione, mi impegnavo nel lavoro e nell'attività buddhista, nonché in famiglia (in quel periodo mia madre non stette bene e fu ricoverata per alcuni mesi). Frequentavo ragazze che mi piacevano, ma non osavo corteggiarle in modo efficace. Una sera, durante una gita in Liguria con amici, mi capitò di condividere una stanza di una casa che ci avevano prestato con una ragazza che mi attraeva molto. Anche un mio amico aveva provato ad essere lui a prendere il mio posto, ma io ero stato più deciso. Nonostante le ipotesi che gli altre stavano facendo su quanto poteva avvenire nella nostra stanza, in realtà io e quella ragazza ci sistemammo ciascuno su uno dei due letti singoli disponibili, e chiacchierammo fino a che non decidemmo che fosse giunta l'ora di dormire. 

A volte ero io a non rendermi conto che potessero esserci ragazze che mi desideravano e con le quali avrei almeno potuto provare. Un week-end a Bolzano, ero ospite di una famiglia di due fratelli, un maschio e una femmina. La ragazza, una sera, si mise a piangere, e il fratello mi disse che era innamorata di me. Io ero però, già da altre fine settimana trascorsi a Bolzano, attratto inutilmente da un'altra ragazza, spigliata, giovanissima maestra. E speravo di mettermi un giorno con lei. Così non avevo colto eventuali segnali che potevano venirmi da quella che era effettivamente interessata a me, e che tra l'altro era anche carina e buona. A ben pensarci, ora mi mi ricordo che, anche quella volta di Firenze, tra i motivi che mi avevano portato a non accettare l'invito della ragazza con cui avevo "giocato" la notte prima, c'era il fatto che aveva iniziato ad attrarmi un'altra loro amici, rossa di capelli, con la pelle diafana, e molto vivace. La quale, però, non mi filava. Mi aveva, però, lusingato dicendomi che avevo cucinato un sugo buonissimo. Non avevo seguito una ricetta precisa, ma avevo messo nella passata di pomodoro tutte le spezie che avevo trovato nella credenza.


Io in Andalusia nell'estate 1982
Io in Andalusia nell'estate 1982

Autobiografia da adulto - Cap. 11 - Idoneo alle armi

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